Stasera i Colchoneros si giocheranno contro il PSV la qualificazione ai quarti di Champions. Ecco come Simeone ha rivitalizzato un club dall'immagine appannata.
Giocare bene non significa giocare un bel calcio. La differenza è sottile ma netta, e il perfetto esempio arriva dall’Atletico Madrid di Diego Pablo Simeone. I Colchoneros non praticano un bel calcio, almeno secondo un certo tipo di canone estetico che vede nel Barcellona, passato (Guardiola) e presente (Luis Enrique) il proprio massimo interprete. Eppure nel contempo l’Atletico produce ottimo calcio, perché le prestazioni della squadra viaggiano costantemente ad un livello superiore rispetto alla somma delle qualità dei singoli giocatori. Non si esce dal Camp Nou tra gli applausi dei 90mila presenti, né si espugna per tre volte consecutive il Santiago Bernabeu, se non si gioca un ottimo calcio.
Con Simeone è la prospettiva a cambiare, la sua è estetica del sacrificio, arte contemporanea fatta di pietra e metallo. “Noi siamo l’Atletico Madrid”, ha dichiarato dopo l’1-0 nel derby con il Real. “Questo è il nostro calcio, questo è ciò che siamo”. Le Merengues – non il Rayo Vallecano - avevano fatto fatica a tirare in porta, soffocati dal pressing altissimo dell’Atletico, dall’occupazione militare degli spazi, da movimenti sincronizzati con precisione meccanica. Più che una partita, un manifesto, ma anche una lezione importante: nel calcio non esiste un solo modo per vincere, e non si vince solo spendendo montagne di quattrini.
Simeone ha portato l'estetica del sacrificio e il sostegno dei risultati là dove dichiararsi "tifosi dell'Atletico Madrid" era visto come un irrazionale atto di fede
Cinquecento giorni sotto la guida di Diego Simeone hanno cambiato la storia dell’Atletico Madrid. Una decina di anni fa c’era uno spot della campagna abbonamenti del club che, seppur involontariamente, rendeva bene l’idea di cosa fosse l’Atletico prima dell’arrivo del Cholo. Si vedeva un’auto ferma al semaforo, e all’interno, sul sedile posteriore, un bambino che chiedeva candidamente al padre: “Papà, perché siamo dell’Atletico?”. La faccia interdetta del genitore, quasi gli fosse stato sottoposto un quesito di anatomia, diceva più di mille parole.
Perché tifare Atletico rappresentava davvero un atto di fede, visto che la squadra aveva tutto - stadio, soldi, utenza (è la quarta società spagnola per numero di appassionati) – per rosicchiare scampoli di gloria (e qualche trofeo) alle altre big, e invece non vinceva nulla dalla stagione del doblete 1995-96, riusciva a retrocedere con gente come Valerón, Baraja, Hasselbaink, Capdevila, Kiko e Chamot in squadra, ci impiegava due anni a risalire dalla Segunda Division e perdeva sistematicamente il derby.
Non più Atletico, ma Patetico Madrid. Almeno fino al dicembre 2011, quando i Colchoneros giocarono la scommessa Simeone, tecnico che aveva fatto bene in Argentina alla guida di Estudiantes e River Plate (1 campionato vinto con ciascuno), ma tutto da verificare in Europa, con cinque mesi a Catania in Serie A quale unica esperienza. Il tabu zero tituli era stato infranto nel 2010 da Quique Sanchez Flores con la vittoria della Coppa Uefa, ma per il resto permaneva il tradizionale concentrato di delusioni e frustrazioni.
Simeone debuttò a Malaga con uno 0-0. In difesa giocavano Diego Godin, Juanfran e Filipe Luis, e la porta rimase imbattuta per altre quattro partite. A fine stagione arriverà l’Europa League. Cinque anni dopo la bacheca dell’Atletico si è arricchita ulteriormente con una Liga spagnola, una Copa del Rey, una Supercoppa europea e una spagnola, senza dimenticare la finale di Champions 2014 sfumata all’ultimo minuto. In difesa ci sono ancora Godin, Juanfran e Filipe Luis, mentre dalla metà campo in avanti si sono progressivamente alternati numerosi interpreti (Falcao, Villa, Diego Costa, Mandzukic, fino agli attuali Griezmann e Fernando Torres), a testimonianza di come il fulcro della filosofia simeoniana si trovi nelle retrovie.
Simeone esordì sulla panchina dell'Atletico con uno 0-0 a Malaga. Quel pareggio fu il primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica
Quel pareggio a reti inviolate contro il Malaga rappresentava un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato l’autentico marchio di fabbrica dell’Atletico: l’impermeabilità difensiva. Nell’attuale stagione l’Atletico non ha subito gol in 27 delle 42 disputate, per una percentuale del 64%. Un dato che si alza al 71% se si considera solo la Champions League, con 5 partite su 7 chiuse con la porta inviolata, e solo 3 reti subite. Attenzione però a non considerare l’Atletico una squadra dedita al catenaccio, perché se è vero che non ama tenere mai troppo il pallone (ha vinto la Liga con una media di possesso palla del 49%), possiede comunque idee, organizzazione e qualità sufficienti per mettere in difficoltà anche le squadre più solide. Basta guardare Koke, giocatore che più di tutti riassume lo stile Atletico: dinamismo, spirito di sacrificio, intensità, intelligenza tattica, qualità tecnica.
A detta dello stesso Simeone, il tempo necessario a un nuovo acquisto per integrarsi pienamente nella macchina dei Colchoneros è di sei mesi. Inoltre, non esistono corsie preferenziali: scende in campo chi, in un determinato momento, offre le migliori garanzie. “Si chiama concorrenza interna”, spiega il Cholo, “e costituisce la base di qualsiasi squadra. Se viene a mancare la concorrenza, la squadra è morta”.
Un’armata da battaglia che paradossalmente rende al meglio nei top match che in quelli minori, dove gli avversari tendono a chiudersi a riccio, smorzano l’agonismo e aspettano la mossa degli uomini di Simeone. Non è un caso che l’Atletico abbia pareggiato 0-0 ad Astana, ma anche ad Eindhoven contro il PSV nell’andata dell’ottavo di finale, nonostante l’uomo in più per oltre venti minuti. Non parlate però a Simeone di limite, vi risponderebbe che “l’unico limite è pensare che esistano dei limiti”.
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